Vivere con una persona affetta da disturbo bipolare: la prevenzione del disagio nella famiglia

di Eleonora de Pisa

Nelle persone affette da un disturbo psichiatrico grave si può cadere nell’errore di identificare la persona con la malattia che condiziona aspetti fondamentali della personalità e del comportamento in modo profondo. Questa operazione è dannosa, rinforza lo stigma nei confronti del malato e contribuisce anche a creare ostacoli per le terapie e per la loro riuscita. E’ dunque fondamentale da parte degli operatori sanitari un approccio che affronti questo problema e lo consideri un sintomo di una patologia più complessa che affligge le relazioni in una famiglia dove c’è un malato con disturbi psichici.

Anche le persone affette da disturbi dell’umore subiscono questo atteggiamento stigmatizzante, in particolare quelle affette da Disturbo Bipolare. La loro patologia si manifesta con fluttuazioni umorali che affliggono in primis l’affettività (la dizione di Disturbi Affettivi era in voga fino a tutti gli anni 90) e dunque tutta la sfera delle relazioni interpersonali, dalle più intime a quelle sociali. Possiamo fare una diagnosi di malattia bipolare ma sappiamo che non esiste un malato bipolare uguale all’altro, pur se tutti condividono la stessa sindrome: la cultura, il carattere, le esperienze di vita, forgiano le sfaccettature con cui il disturbo si presenta e che rende unica ogni storia clinica. Allo stesso tempo gli studi clinici dimostrano che la malattia come tale è in grado di condizionare e plasmare anche la personalità soprattutto se il disturbo ha esordito precocemente o il temperamento (ovvero la costituzione umorale del soggetto) è francamente connotato in senso patologico (Kraepelin affermava che il temperamento è già una piccola malattia).

Il concetto di temperamento può aiutare il medico e lo psicologo a distinguere ciò che appartiene alla natura biologica dell’individuo, di per sé adattabile, da ciò che la malattia ha reso rigido e patologico e perciò definibile come disturbo. Nei casi meno gravi della patologia Bipolare il paziente conserva una sua identità temperamentale e “si riconosce” riuscendo ad affrontare le cure e collaborando al meglio. In altri casi, i fallimenti terapeutici (spesso dovuti alla non aderenza e a una scarsa capacità di insight) e un decorso particolarmente negativo della malattia fanno sì che l’individuo affetto dal disturbo bipolare si identifichi totalmente con la malattia perdendo il senso di sé, la critica della realtà e la capacità di governare la sua vita.

A questo proposito vogliamo ricordare che negli anni Novanta tutti gli studi sull’Illness Behaviour hanno dimostrato che questo atteggiamento di identificazione patologica con la malattia da cui si è affetti si presenta anche con altre patologie (tumori, gravi malattie reumatologiche, sclerosi multipla etc) ed è foriero di disturbi d’ansia, sofferenze psicologiche, scarsa aderenza ai trattamenti. Inoltre, alcune di queste malattie agiscono anche attraverso alterazioni neuromediate creando un loop veramente fatale nel quale il malato può perdersi.

Ci sembra dunque molto importante dare alcune informazioni utili a chi si occupa di famiglie nelle quali c’è una persona affetta da Disturbo Bipolare e dove ci si confronta con problematiche tipiche di un disturbo psichiatrico grave come ricoveri, instabilità affettiva, irritabilità e aggressività, comportamenti sessuali a rischio, pensieri e comportamenti bizzarri, danni economici legati alla prodigalità o a decisioni impulsive.

Essere la moglie, il marito, il genitore o il figlio di un paziente bipolare comporta una grande sofferenza: riconoscere e convivere con i disturbi del malato alimenta il senso di impotenza e di frustrazione. Nel caregiver questo si trasforma in una fonte di grande stress ma sostiene anche un atteggiamento di giudizio morale o di negazione della patologia. La vita quotidiana con una persona affetta da Disturbo Bipolare può essere anche troppo eccitante e coinvolgente: il malato “ne inventa una al minuto”, la fantasia prende il potere sull’organizzazione del menage e sulle regole della vita familiare. Il dubbio di poter ereditare la malattia basta a togliere il sonno anche al figlio o alla figlia più saggia.

Le relazioni familiari possono dunque diventare molto difficili. Questo è il motivo principale per cui è altamente consigliato coinvolgere il coniuge del malato (ma anche i genitori) in un percorso di psicoeducazione e di approfondimento sulle tematiche conflittuali. Altrettanto importante è coinvolgere i figli maggiorenni con percorsi dedicati, mentre per i figli piccoli è meglio agire attraverso la modulazione relazionale della coppia genitoriale e ricorrere all’aiuto psicologico solo in caso esistano evidenti segni di disfunzionalità. Il rischio di cadere nell’asserzione di una famiglia patologica solo per la presenza di un malato è nuovamente uno stigma.

Il lavoro psicoeducazionale costituisce una prevenzione terziaria nei confronti della potenziale patologia relazionale all’interno della famiglia: in primis perché si vigila sullo sviluppo dello stress emotivo e poi perché si possono diagnosticare precocemente eventuali disturbi così come avviene nel caso della sindrome feto-alcolica (il neonato mostrerà le disfunzioni legate al consumo alcolico della madre che rinforzerà i sensi di colpa di lei e potenziera’ il circolo vizioso colpa-dolore-alcol).

La letteratura sull’argomento è stata di recente oggetto di review (Azorin e coll, 2021), ma negli anni Duemila la psicoeducazione, nella sua accezione più vera, cioè di educazione attraverso il mezzo psicologico ha prodotto importanti contributi al trattamento di questi malati. Il pragmatismo della cultura anglosassone, che fa del consenso informato e del coinvolgimento dei pazienti in modo attivo nel trattamento del disturbo un cardine fondamentale, è stato fondamentale. Nell’articolo pubblicato da Azorin e coll., tuttavia, gli autori suggeriscono che il coinvolgimento del coniuge nella terapia del paziente con disturbo bipolare non è ancora una routine del lavoro psichiatrico.

Ricordiamo che in alcuni paesi il matrimonio è vietato quando uno dei due coniugi è affetto da una patologia mentale dimostrando come il pregiudizio culturale si sposi all’idea di proteggere dalla trasmissione genetica della malattia. D’altra parte ancora oggi alcune separazioni avvengono perché presuppone il vizio di consenso per la presenza, magari non dichiarata, di un disturbo mentale. Quando si tratta di disturbi dell’umore è più facile che ciò avvenga poiché i quadri clinici sottosoglia o gli aspetti temperamentali patologici vengono scambiati per problemi di caratteriali.

A complicare ulteriormente l’equilibrio di una famiglia dove ci sia un malato bipolare sta il fatto, non infrequente, che il coniuge affetto dal disturbo possa non essere il vero malato della coppia. A volte, nella sua fragilità, lui o lei possono subire la personalità patologica del coniuge: il paziente “ufficialmente” ammalato diventa oggetto di critiche e vessazioni che hanno spesso conseguenze tragiche o giudiziarie. Altre volte la situazione si evolve da una condizione prematrimoniale di accudimento esclusivo (motivato proprio dalla malattia del compagno) con la quale il coniuge sano agisce,fino all’imposizione, dopo il matrimonio, di vere e proprie forme di abuso psicologico fino al maltrattamento vero e proprio (frasi come “allora sei veramente pazza” oppure “ti avevo chiesto di cambiare” sottolineano l’ambiguità del rapporto coniugale che è stato scambiato per un rapporto “terapeutico”).

Se questo accade in momenti delicatissimi, come ad esempio durante la prima maternità, lo stigma della malattia e le paure alimentate dai mass-media attivano fantasie persecutorie.

I colloqui con la coppia diventano allora fondamentali per non arrivare a situazioni drammatiche, anzi per aiutare la trasformazione delle dinamiche patologiche della coppia in occasione della maternità.

Una mia esperienza personale può servire a spiegare.

Durante uno dei colloqui fatti con una coppia in cui la donna era affetta da un D. Bipolare di tipo psicotico, il marito della paziente si era mostrato più preoccupato della moglie per l’imminente parto, nonostante la gravidanza procedesse bene. In una seduta, messo di fronte alla sua crescente ansia sul “futuro” del bambino, il marito aveva chiesto in modo esplicito:

Ma se un giorno lei si sente male e butta mio figlio dalla finestra?”. La violenza di questa domanda faceva emergere tutte le angosce mai sopite nell’aver sposato una persona bipolare e traduceva di fatto la malattia della madre in un destino tragico per il nascituro. Occorreva disinnescare subito questa aggressività ammantata di premura mista a paura .

Forte di una buona conoscenza della relazione di coppia la psichiatra decise di usare un drammatico paradosso, chiedendo al marito:

E se il suo bimbo ormai cresciuto, mentre fa una passeggiata con lei, le scappa di mano e viene investito e ucciso?”.

L’ipotesi di un destino fatale che può portarti via un figlio senza colpa ottenne il suo effetto. Il marito iniziò a riconsiderare molte delle sue convinzioni sulla malattia della moglie che aveva sposato immaginando di poterla “guarire” attraverso un controllo ossessivo delle sue parti patologiche e sperando di poter fare a meno di medicine e medici (anche perché era un discreto taccagno e si lamentava spesso delle spese sostenute).

La coppia, dopo la prima bellissima e sanissima bimba di nome Giulia, ebbe anche un altro figlio maschio. Il Disturbo Bipolare della paziente si è nel tempo stabilizzato consentendole di tornare al suo lavoro. Il marito ha imparato a collaborare con lei nell’accudimento dei bimbi e poi nella loro educazione abbandonando l’atteggiamento ossessivo e giudicante che nascondeva certamente un tratto paranoicale. La malattia della moglie non era più il nemico che minaccia la serenità, ma un fatto della vita da affrontare con i curanti, sostenendola nei momenti difficili, come per qualsiasi altra malattia.

Una nota a margine di questa storia è che la sorella gemella della paziente, anche lei affetta da D. Bipolare ma che non aveva mai voluto accettare alcun trattamento, nemmeno di tipo psicologico, sprofondò in un delirio mistico alimentato dall’impossibilità ad avere figli. Il marito chiese il divorzio sostenendo che nessuno lo aveva informato della patologia della moglie prima del matrimonio.

La negazione della patologia rimane a tutt’oggi uno dei più potenti attivatori della patologia familiare laddove ci si trovi a convivere con un paziente affetto da un disturbo mentale. E’ nostro dovere di psichiatri contribuire a ridurre lo stigma e le sue conseguenze in collaborazione con tutti gli operatori della salute mentale.

Autore: Eleonora de Pisa, Psichiatra

Azienda OspedalieroUniversitaria Sant’Andrea – Facoltà di Medicina e Psicologia . Università Sapienza di Roma

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