La danza primitiva diventa contemporanea al tempo del Covid
Ogni relazione umana ha origine dalla “danza primitiva” dell’ovulo fecondato nel corpo materno.
L’irripetibile relazione SIMBIOTICA madre-feto è la più intima e profonda possibile, dove non c’è distanza, dove uno è parte inscindibile dell’altro.
Poi il parto e la nascita deflagrano, costituendo la prima rivoluzione, miracolo ma anche TRAUMA PRIMITIVO per i protagonisti di quella UNITA’ che diventa DIADE.
Da qui si snoda l’avventura complessa ed affascinante della vita che, dipanandosi da quella originaria SEPARAZIONE e passando attraverso il coinvolgimento del padre e le tante separazioni e differenziazioni successive, porta il neonato (ed i suoi neogenitori) a muovere i primi incerti passi per apprendere i rudimenti di quella magica danza tra distanziamento e avvicinamento che è premessa essenziale e fondante nella costruzione di identità autonome, sane e magari felici.
Vari ostacoli possono frapporsi e sovrapporsi in questa Scuola di Danza e rallentare, deviare o bloccare i ballerini oppure spingerli a fare il salto di qualità.
Il primo inciampo può concretizzarsi nello sviluppo di una psicopatologia perinatale; ma tutto il percorso del bambino verso la graduale acquisizione delle competenze motorie, cognitive, emotive, individuali, interpersonali e sociali sarà un continuo susseguirsi di tappe delicate, criticità ed entusiasmanti successi, nell’apprendimento di passi, figure e sequenze sempre più articolate e complesse per lui e per mamma e papà.
Dai sobbalzi confusi, timidi o rabbiosi dell’adolescente, attraverso brusche frenate, capriole, arresti e indietreggiamenti, lo sperimentale “Io ballo da sola” si trasforma nell’inebriante danza del corteggiamento, per approdare all’apice dell’esperienza sessuale-affettiva-amorosa più matura.
Qui la danza può farsi caos oppure virtuosismo, nella riattualizzazione dei nodi e dei fantasmi del passato MA con la preziosa opportunità di raggiungere un nuovo, appagante, superiore equilibrio. Insomma: regressione alla danza primitiva madre-bambino per co-costruire nella relazione di coppia l’interdipendenza, in un LEGAME che tuteli contemporaneamente l’individualità reciproca. Coppia intesa quindi come relazione terapeutica naturale che può consentire di riparare e ridisegnare la coreografia personale dei due ballerini in un creativo “passo a due”.
Ma se la danza non fluisce armoniosamente, diventa sgraziata e i due danzatori inciampano troppo spesso o cominciano a farsi gli sgambetti a vicenda si può arrivare all’esigenza di separarsi. Distanziarsi e separarsi senza distruggersi non è affatto scontato e richiede la capacità di gestire la perdita, il lutto, l’aggressività e la rabbia nonché quella di riconoscere ed accettare i propri limiti, senza difendersi con la negazione o la proiezione. Tutto ciò è tanto più possibile, quanto più ci si è allenati nella danza distanziamento-avvicinamento, così da riuscire a tollerare il distacco dall’altro fisico-reale ma anche dalle parti dell’altro che si erano introiettate in sé (lutto da sé).
Quando ciò non avviene assistiamo allo straziante e terribile “spettacolo” delle separazioni conflittuali infinite, delle violenze di genere, degli abusi, carenze e strumentalizzazioni di vario tipo sui figli, anche su quei bambini che si dice, e magari si è convinti, di amare.
La cooperazione sempre più strutturata e funzionale (armonizzata) tra figure professionali diverse (avvocati, assistenti sociali, psicologi, psicoterapeuti, educatori) potrà forse essere d’aiuto nell’affrontare più efficacemente in futuro realtà così drammatiche?
Fare una PSICOTERAPIA è un po’ ritornare a Scuola di Danza. Qui, con l’intento di gestire nel modo più equilibrato possibile i bisogni primitivi di vicinanza-distanza, identificazione-separazione, si rimettono in scena gli antichi conflitti per apprendere, riapprendere e modificare la “routine” abituale, smettendo di vivere repliche sempre simili e cambiando finalmente copione e coreografia.
Nella relazione terapeutica è imprescindibile (e “terapeutica” appunto) la “distanza ottimale” (nell’accezione esteriore-fisica ma soprattutto interna) tra paziente e psicoterapeuta, che frustra il soddisfacimento immediato nell’agito e permette l’interiorizzazione e l’elaborazione del conflitto.
L’emergenza Covid-19 ha costretto (ma oggi posso dire anche stimolato) me ed i miei pazienti a pensare ed accettare l’introduzione di inattese varianti, piroette e giravolte nella nostra coreografia, con elementi che, solo poco tempo prima, consideravamo estranei ed incompatibili con essa: inizialmente, in pieno lockdown, il PC o il telefono per fare sedute “a distanza”; poi, con la ripresa degli incontri “in presenza”, il distanziamento materiale delle due poltrone e l’uso delle mascherine. Misure adottate “gioco-forza”, per proteggerci vicendevolmente, che NON SONO CERTO NEUTRALI nella relazione-danza, che la perturbano e la sollecitano in continuazione ma che ci impegniamo quotidianamente a far sì che non diventino intralcio o impedimento. Perciò poniamo ancor più attenzione affinché avvicinamento e distanziamento siano movimenti vissuti ed analizzati nella nostra danza interiore, a fronte di una aumentata “distanza fisica di sicurezza”.
Dal Vocabolario Treccani: DISTANZA = Lunghezza del tratto di linea retta che congiunge due punti o, più genericamente, lunghezza del percorso tra due luoghi, due oggetti, due persone. Usato in assoluto, s’intende grande distanza (n.d.r. lontananza).
All’inizio degli anni sessanta Edward Hall studiò e definì, con la PROSSEMICA, lo spazio e le distanze interpersonali sul piano psicologico e comunicativo:
Zona Intima: meno di 50 centimetri ca.
Zona Personale: da 50 centimetri a 1 metro ca.
Zona Sociale: da 1 metro a 3,5/4 metri ca.
Zona Pubblica: oltre 4 metri
Protagonista invadente e inatteso, il Coronavirus ci ha obbligato ad “allargare” le Zone Intima e Personale per farle coincidere con la Zona Sociale e tutti ci siamo abituati a sentir parlare di “distanziamento sociale”.
Ma l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sostenuto con forza che, in questa pandemia, ciò che va rispettato per limitare il contagio è il “distanziamento fisico”, mentre “va incentivato il più possibile il rafforzamento dei legami sociali, promuovendo la socialità per mantenere ed aumentare il benessere psicofisico”. Cambiamento di lessico, con conseguente superamento di uno strisciante e temibile equivoco semantico, che non è di poco conto per evitare di associare il termine “sociale” ad un concetto di negatività o pericolosità che rischia di far scivolare nell’ISOLAMENTO e danneggiare la salute mentale e fisica di molte persone.
L’obiettivo sarà allora tutelare e incoraggiare i legami sociali, badando alla “distanza interpersonale di sicurezza” ma favorendo l’inclusione e la solidarietà verso le persone più fragili, vulnerabili, disabili, sole, povere, valorizzando e facilitando i contatti anche sfruttando l’aiuto fornito dalle tecnologie informatiche di comunicazione e dai cosiddetti “social”.
Le parole hanno peso: lavoriamo ed impegniamoci quindi AFFINCHE’ IL DISTANZIAMENTO FISICO NON DIVENTI SOCIALE!
Infine voglio intrecciare queste riflessioni alla mia esperienza personale:
Sembrava un qualunque giorno di fine inverno quando mi sono ritrovata, senza sapere veramente cosa fosse, né cosa veramente comportasse, nella condizione mai provata prima del confinamento totale.
Sono stati mesi difficilissimi, in cui nessuno è stato risparmiato, in un turbine sconvolgente spesso paragonato alla guerra: dagli operatori sanitari coinvolti, travolti e catapultati improvvisamente nel ruolo di “eroi”, ai lavoratori impiegati in settori “essenziali” costretti a confrontarsi con la paura di contagiarsi e contagiare, a coloro che hanno perso lavoro, sicurezza, dignità; dai bambini e ragazzi rinchiusi in casa e alle prese con le lezioni on-line (per fortuna spesso -soprattutto i più piccoli- anche contenti di condividere più tempo coi genitori), ad adolescenti, giovani e adulti più fragili (con possibili recrudescenze del fenomeno Hikikomori, “vecchie” e nuove dipendenze patologiche, cyberbullismo), alle persone anziane naturalmente più vulnerabili all’isolamento sociale;da chi si è trovato costretto h24 in convivenze forzate (vedi: esplosione delle conflittualità croniche ed aumento di abusi e violenze domestiche), a tutti coloro che si sono ammalati, non solo di Covid (!) e non solo nel corpo (leggi: insonnia, disturbi d’ansia, dell’alimentazione, dell’umore, fino alle derive psicotiche, paranoidee ecc.), a quanti sono morti (ma per fortuna anche nati) in solitudine…
In questo disastroso terremoto, dopo l’iniziale sottovalutazione, il comprensibile disorientamento, il successivo sconforto e poi la depressione e la rabbia, fino all’inevitabile adeguamento dell’esame di realtà, creare dentro di sé la capacità di resilienza è stato, ed è, INDISPENSABILE.
Il consueto confronto tra colleghi ed i corsi di aggiornamento professionale, che si sono potuti realizzare solo grazie all’adozione delle modalità di comunicazione on-line, mi hanno consentito di cercare in me, proprio attraverso il prezioso aiuto degli altri, la forza, il coraggio, la creatività per trovare soluzioni nuove e adeguate al momento.
Durante il lockdown ho potuto, col telefono e con Skype, continuare le psicoterapie coi pazienti e sentirmi vicina al mio compagno in ospedale (che non potevo andare a visitare) ed a mia mamma e mia zia (di 83 e 90 anni) che, vivendo sole, hanno seriamente rischiato di sentirsi isolate.
Oggi, dopo l’apparente tregua estiva, questa emergenza globale di proporzioni mai sperimentate nella storia dell’uomo si ripropone violentemente con contorni ancora più “liquidi”, manifestandosi contemporaneamente come sanitaria, economica, sociale, culturale, educativa, psicologica, spirituale, umana.
Come persona qualunque, spinta ad inventarmi una danza senza prima aver fatto le prove, e come psicoterapeuta, consapevole di condividere la stessa scena-realtà dei miei pazienti, sento che la sfida, per non farsi sommergere da smarrimento, sconcerto, ansia, depressione, rabbia, aggressività e NEGAZIONE (che in quanto terapeuta sono chiamata ad analizzare ma non alimentare), è come sempre riconoscere, innanzi tutto dentro di me, che tutto ciò ha a che fare con la fragilità e la PAURA. Solo accettando di confrontarci con quest’ultima possiamo porre le basi per: essere attenti e prudenti NON rinunciatari; reagire con coraggio NON con incoscienza; favorire il potere dell’ottimismo e della speranza NON la superficialità; sostenere la forza dei LEGAMI affettivi e sociali, vera risorsa individuale e comunitaria, e PROPRIO PER QUESTO rispettare norme, limitazioni e restrizioni anti-contagio nuovamente irrigidite, per assumerci la responsabilità di contribuire attivamente, volontariamente e consapevolmente, alla protezione di tutti.
Proprio mentre scrivo queste considerazioni, la mia amata nipote C. si è ritrovata da sola in ospedale, per dare alla luce la sua desideratissima Aurora, senza poter avere accanto neanche il suo compagno, lasciato fuori (impaziente come tutti i papà) ad aspettare… foto e video (ripresi dalle meravigliose ostetriche e infermiere), unico tramite per conoscere sua figlia. Aurora (mai nome è stato più fonte di speranza!) ha già iniziato la sua benaugurante danza con la mamma e, solo fra qualche giorno, potrà finalmente ballare anche con papà. Ma sono convinta che questa SOFFERTA distanza reale NON E’ MAI STATA distanza, o lontananza, INTERIORE!
La SPERANZA è che l’inevitabile SEPARAZIONE FISICA imposta da questo strano tempo sospeso (col suo imprevedibile ritmo, sincopato o assente, così difficile da danzare) possa infine essere percepita, vissuta ed elaborata da tutta la collettività NON come perdita incomprensibile, obbligo insensato o addirittura abuso MA come espressione concreta ed alta di quella vicinanza emotiva, attenzione, protezione, cura, responsabilità, impegno, anche sacrificio, di cui sono fatti il rispetto, la condivisione ma soprattutto l’AMORE.
Per favore, non parliamo di “distanziamento sociale” …e proviamo a ballare INSIEME questa inedita, incredibile, sconosciuta Danza Contemporanea!
di Silvia Maria GENCO
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