Diagnosi in adolescenza. Anche no……..

Ancora oggi parlare di diagnosi in adolescenza significa mettersi su una strada difficile da definire.

Già a parlare di diagnosi in psicoanalisi spesso ci si trova su un terreno scivoloso perché per tanti anni la diagnosi così come intesa in senso tradizionale cioè medica è sempre stata considerata da evitare. D’altra parte è comprensibile dal momento che può significare un punto di arrivo ovvero di chiusura mentre la psicoanalisi cerca le cause e non si ferma agli effetti cioè ai sintomi: perché in psicoanalisi i sintomi sono segno della cura e non la malattia (Freud).

In adolescenza fare quindi una diagnosi è vieppiù difficile perché ci si trova in una situazione assolutamente dinamica, dove una osservazione di oggi è assolutamente diversa da quella di domani e viceversa.

Sappiamo bene che per anni il trattamento dell’adolescente è stato considerato impossibile, troppo vicino il suo funzionamento a quello di uno psicotico in cui scissione, negazione, identificazioni proiettive e difese di questo tipo sono tipiche.

La diagnosi in adolescenza non va intesa soltanto come riconoscimento obiettivo di uno stato, né come individuazione della causa dei sintomi, ma come un tentativo di scoperta del sè segreto dell’adolescente (Novelletto 1986), nei suoi vari aspetti sia funzionanti che disturbati. (Montinari, la diagnosi in adolescenza)

Il processo diagnostico con l’adolescente si pone fin dalle prime battute come lo spazio per un possibile passaggio che fa evolvere l’immagine di sé da diagnosi segreta a diagnosi condivisa, passo essenziale verso l’assunzione di una identità pubblica, complementare a quella di altri e pre-condizione per la creazione di nuove relazioni. (Montinari, la diagnosi in adolescenzaenza)

Diversi autori hanno nel tempo proposto modelli di valutazione nel tentativo di inquadrare sia il processo che l’organizzazione della personalità in divenire dell’adolescente. Fra questo (Kerberg, 1984) con l’uso dell’intervista per la diagnosi dell’adolescente. Molto utili sono le categorie di valutazione di massima come quelle proposte da Laufer (1984) che distingue tre categorie: il funzionamento difensivo; la situazione di stallo; la conclusione prematura dello sviluppo.

Altri propongono un atteggiamento diagnostico più integrato (Novelletto 1986; Monniello 2005, 2014), Nicolò 1992; 2014). (Montinari, la diagnosi in adolescenza)

Nella letteratura l’interesse degli psicoanalisti dell’adolescenza per quanto riguarda la diagnosi è stata accentrata sulle situazioni di break down.

Anche Novelletto nel tentativo di delineare linee guida, si interessa sopratutto al breakdown: “Lo scopo di questa valutazione dello sviluppo psichico del soggetto sta nel definire il grado della sua vulnerabilità psichica, innanzitutto ai fini del rischio più grave che l’adolescente può correre, cioè quello del breakdown sempre che il breakdown non sia già avvenuto”.

Ci possiamo chiedere a che fine fare una valutazione dell’adolescente; Novelletto si risponde che il colloquio e quindi l’orientamento diagnostico serve a capire: …verso quale evoluzione clinica, cioè verso quale organizzazione psichica e verso quale gravità di disturbo, questi giudizi potranno orientare il futuro del paziente, se non curato…

Per raggiungere questo obiettivo Novelletto ci suggerisce di tenere a mente due dimensioni: la prima consiste nel rintracciare nello sviluppo dell’apparato psichico segno tale da fungere da premessa indispensabile a una terapia intesa innanzitutto come rispetto e ripristino dello sviluppo psichico normale. La seconda consiste nel privilegiare l’asse economico del funzionamento psichico rispetto a quello topico e dinamico. (il misterioso salto tra diagnosi e terapia).

Mi riferisco con ciò alla valutazione della distribuzione funzionale dell’energia nell’intero sistema di quelle che E. Kestemberg chiama le “coordinate di valutazione dell’adolescente”, che che comprendono : a) il nuovo equilibrio che si viene a creare in lui tra gli investimenti narcisistici e investimenti oggettuali; b) bilancio delle qualità e funzionalità delle difese, cioè il lavoro dell’Io e il suo costo in termini energetici di controinvestimento; c) il regime di identificazioni e il livello di maturazione del rapporto oggettuale; d) lo stato di identità (coesione del Sé) e il suo rapporto con gli ideali relativi; e) la capacità di depressione in termini di lutto fisiologico per gli aspetti infantile del Sé che decadono.

CHE COSA VA VALUTATO

Novelletto individua 9 parametri da indagare attentamente, come fossero di fari che indicano la strada. (il misterioso salto..) Per esempio si chiede: quali tappe di sviluppo sono state raggiunte e quale rapporto casuale vi sia tra gli eventuali arresti e ritardi di sviluppo, da un lato, e i disturbi dell’adolescente osservato dall’altro. In questo tentativo si rifà sicuramente ai Laufer, ma anche ad Erikson.

Secondo Novelletto una vera diagnosi è solo privata, cioè nella relazione tra il paziente e il terapeuta; è un questo spazio che si consuma la conoscibilità e la valutazione della situazione di quel paziente rispetto a quel terapeuta, e in quella relazione si raccolgono i dati su cui si potrà basare una valutazione.

In conclusione anche lui cerca di superare il concetto classico di diagnosi per cercare elementi che superino l’esame fenomenologico, che specialmente in adolescenza è estremamente volubile, per cercare anche risonanze personali, e dà grande importanza al controtransfert che consegna al terapeuta la responsabilità di essere il metro di giudizio della eventuale patologia dell’adolescente che incontra. In questo senso sposa l’idea del brodo della strega di Freud e propone quindi una “diagnosi prolungata”. D’altra parte come potrebbe essere diverso se dobbiamo tener conto delle risonanze emotive, che hanno bisogno di tempo per potersi dispiegare. Si arriva ad una diagnosi che Novelletto definisce privata che certamente corrisponde alla relazione tra quell’adolescente e quel terapeuta, ed è praticamente intrasferibile.

Inoltre accanto alla diagnosi non possiamo dimenticare che va stabilita la trattabilità e quindi la prognosi.

Nei parametri di valutazione fino qui osservati, non compaiono i concetti di oggettivazione, almeno in modo specifico, anche se Novelletto li ha chiaramente in mente, per esempio quando parlando del concetto di Sè dice che Il nocciolo della questione è l’impossibilità di fare il lutto per la passata fanciullezza e non sopportare l’angoscia di un qualsiasi cambiamento nello stato del Sé. Oppure quando parla della “autodiagnosi del paziente: “Spesso quindi il terapeuta non deve inventare la diagnosi per proprio conto , ma deve innanzitutto, aiutare il paziente a rivelarsi la propria diagnosi e poi aiutarlo a modificarla con un lavoro di lunga contrattazione intorno a ciò che il paziente è disposto ad accettare, rispetto alla ulteriore conoscenza di sé che il terapeuta è in grado di offrirgli……..Comunque una cosa è certa: prima di accettare una diagnosi nuova che gli viene offerta dall’esterno, l’adolescente deve rinunciare a una propria diagnosi che possiede già dentro di sé.

Ecco i due concetti basi della oggettivazione: lo scioglimento di vecchi legami e la possibilità di farne nuovi per vedere una nuova immagine di sé (Cahn, 2000). Cahn scrive; per qualsiasi adolescente le modalità di stabilire legami dipenderanno dal suo modo di scioglierli. È un processo continuo per tutta la vita, che alcuni possono chiamare di strutturazione di sé che comincia fin dall’infanzia.

Eppure il concetto di soggettivazione apre molte strade interessanti per la comprensione del funzionamento dei giovani di oggi, dove tutto è aleatorio e ci si trova in una società che è stata definita“liquida”. (Bowman….)

È durante l’adolescenza che i ragazzi e le ragazze si pongono il tema esistenzialista dello “scegliere se stessi”.

Filosoficamente parlando, si può dire che è come se l’adolescente nella sua ricerca di libertà si gettasse in un vuoto, che, per usare il gergo esistenzialistico- è il Nulla. Ma il Nulla in senso hegeliano è necessario per divenire: (si nasce, si è nulla, per divenire). Da un punto di vista psicologico, il vuoto è conseguenza dell’uccisione simbolica dei genitori che genera la solitudine dei giovani, “orfani” di fronte all’incertezza delle scelte che devono compiere.

In definitiva la scelta di ognuno, ragazzo o ragazza o adulto che sia, è divenire ciò che si è.

Però, non c’è consapevolezza di ciò che si è finche non si diviene ciò che si è. Questo è il dramma dell’uomo moderno. (Heller) Poiché oggi il corso della vita non è predisposto dalle aspettative, dagli ideali e dalle determinazioni della società, ognuno deve «sforzarsi» per scoprire quale sia il genere di azioni adeguato al proprio carattere.

Va tenuto conto, certamente, dei contesti in cui si nasce, per esempio, il paese, la religione, la classe sociale, etc.

In altre parole ciascuno è anche “soggetto” a qualche cosa. Si ha a che fare con una esperienza dolorosa in cui ci si trova di fronte alla propria identità così come appare: una “identità assegnata” che sconvolge le pretese onnipotenti dell’Io.

Ci si trova ad operare una sintesi originale fra ciò che ci si trova ad essere nella propria storia e traumi che ci individuano come essere non scelto, e la propria misteriosa libertà di essere umano

Quando la ricerca incessante del senso dell’essere non si conclude anzi diventa senza speranza, qualunque sia l’intensità o la qualità dei conflitti in gioco, prevarrà il ricorso alla scissione, al disinvestimento, alla espulsione dalla psiche, la confusione nelle identificazioni o nelle relazioni oggettuali. (Petruccioli).

Cahn introducendo il concetto di soggettivazione introduce la possibilità di un ulteriore elemento di conoscenza e quindi di “dia-gnosi”, attraverso un diverso paradigma. La domanda che si può porre è: come si può per arrivare alla conoscenza attraverso il concetti di soggettivazione? Cioè conoscere attraverso (diagnosi) secondo i paradigmi di Cahn.

Un giovane paziente, ma comunque adulto, mi si presenta e ben presto ho l’idea di una situazione di personalità francamente narcisistica. A ben vedere ho l’idea di trovarmi di fonte un adolescente anche se ha superato da alcuni anni l’età, il quale teorizzava e cercava una libertà fatta di assenza di legami nella fantasia di essere sciolto. Si trattava quindi di una difficoltà a “slegarsi” da un narcisismo da adolescente e accedere all’oggetto; tanto che non gli era possibile alcuni legame sentimentale vero e profondo.

Mi chiedo quindi se in fase di valutazione sia possibile prendere in considerazione la possibilità che ha l’adolescente di sciogliere legami, ed anche di capire se è in grado di farne degli altri. Questo è probabilmente possibile valutarlo in sede di consulenza, cioè se è in grado di creare il legame con l’analista che lo sta valutando.

Un ragazzo quindicenne ha da poco perso la nonna, alla quale era molto affezionato, anche perché era stata quella che si era presa cura di lui fin da piccolo ed aveva una grande valenza materna, anche perché la madre separata e sola aveva svolto molto una funzione paterna. La grande sensazione di lutto fa vivere lui moltissimi sentimenti diversi, di rabbia e sopratutto tristezza e scoramento, che seda stando molto con gli amici lontano da casa. si rende ben conto di questo suo sentimento di vuoto che gli impedisce anche di studiare e di impegnarsi nelle cose; sente anche di avere una grande rabbia dentro con la possibilità di trovarsi a picchiare qualcuno. Cosa che non è nel suo carattere. Come si fa a rompere un legame come quello, che è una vera situazione di lutto, ma anche lo scioglimento di legame. Anche in questo caso come in molti, il tempo ci dirà come andrà a finire, a noi non resta che essere accanto al nostro adolescente e ascoltare e orientare. Ma da un punto di vista diagnostico? Ha ragione Novelletto allora quando parla di diagnosi prolungata. Ci vuole del tempo per valutare le possibilità di cambiamento di stato dei legami, e ha ragione anche quando parla di diagnosi privata, perché il gioco avviene proprio all’interno della relazione di quel paziente con quel terapeuta.

Ma la valutazione ha a che vedere anche con la trattabilità e con il cambiamento (il misterioso salto……)

Nei paesi anglosassoni, a lungo negli anni sessanta si parlava di counseling e nelle vie di Londra comparivano spesso cartelloni che indicavano centri di counseling per adolescenti, dove i ragazzi entravano e chiedevano “counsel” , cioè consiglio su argomenti disparati. Molti ho conosciuto che si sono rivolti in questi centri. Da un po’ di tempo si è diffusa anche in Italia questa pratica, che in Inghilterra ormai si è trasformata, in quanto è stata assimilata ad una terapia. Quello che era il BAC (british assocition of counselling) si è trasformato in BACP in British Assocition of Counselling and Pyschotherapy.

Sappiamo che un buon consulenza cosi come una diagnosi prolungata, può dare impulso ad una trasformazione: Alberto Semi diceva che un primo colloquio avvenuto bene, è sempre trasformativo.

Alla luce di questa considerazioni non si può che essere con Novelletto quando ribadisce l’idea di Freud che la diagnosi è proprio come il brodo della strega e che non può essere demandata un solo colloquio ma ad un frequentazione lunga con il paziente. D’altra parte in medicina stessa, sebbene la prima visita sia importante ed orienta il clinico non è risolutiva; ormai ci si rivolge verso altri ausili diagnosticati e strumentali. Inoltre da tempo ormai c’è una tendenza a spostare l’interesse sul paziente che ha quella malattia, perché la stessa patologia organica ha delle risonanze particolari su quel particolare paziente e anche le medicine per la terapia possono dare dei risultati diversi: si sta passando a quella che era una medicina basata sull’organo malato a quella basata sul paziente malato.(patient centered medicine)

Sebbene le caratteristiche provvisorie e mobili delle patologie adolescenziali inducono ad una prudenza nelle generalizzazioni e invitato alla valutazione caso per caso, una trasmissibilità della diagnosi è necessaria e non può né deve essere demonizzata. Specialmente per chi lavora nelle istituzione questo è necessario. (Novelletto…)

Cahn stesso nel suo libro “adolescenza e follia” sebbene introduca il concetto di soggettivazione usa i termini diagnostici tradizionali concludendo per tutti i casi che presenta una diagnosi di personalità borderline.

Quindi il problema di fare una diagnosi rimane, e rimane sopratutto per quelle situazioni in cui non ci si trova di fonte a break down o di rischio di breakdown.

Sebbene la comunità psicoanalitica pensi che la diagnosi psichiatrica sia una operazione di riduzione e di ostacolo al processo conoscitivo, non di meno alcuni rilievi di certa psicoanalisi, avvalendosi di “una fraseologia psicoanalitica bel tornita ì” (Winnicott 1958, p.32) possono presentarsi come osservazioni alquanto riduttive:

E’ più “riduttivo“ dire che una persona soffre di disturbo da attacchi di panico o viceversa parlare di assenza di investimenti oggettuali, Io debole o Super-Io sadico? Difficile dirlo…. Che la diagnosi sia il risultato di un processo di riduzione è assolutamente scontato. Una diagnosi non può essere nient’altro che questo. Ma il problema è di che cosa si attende dalla diagnosi e che uso se ne fa. Una diagnosi che addormenta ogni ulteriore possibilità di conoscenza si pone come ostacolo nella relazione terapeutica. E’ necessario che la capacità di stupirsi del clinico di fronte ai fenomeni che osserva resti viva. Quella “i” che marca la differenza tra approccio “clinico” ed approccio “cinico” va difesa ad ogni costo (Rossi Monti, 2008a, pp795 796)

Al di là del singolo sintomo e al di là di un cinico etichettamento il clinico che rivolge il suo focus di attenzione alla struttura psichica del paziente , al significato esistenziale e antropologico, (Bergeret 1996) è un clinico che non esaurisce la valutazione in una classificazione diagnostica ma si indirizza verso una comprensione diagnostica (Gabbard 2010)

In psicoanalisi in genere, ma nella valutazione dell’adolescente sopratutto, è necessaria: “Una diagnosi quindi che applica un modello dimensionale e non solo categoriale, che non demarchi un confine netto tra patologia e normalità; non considerare la diagnosi come definitiva, ma provvisoria e soggetta a cambiamenti; una diagnosi come punto di arrivo, ma come punto di partenza intimamente legato al progetto terapeutico; l’importanza della dimensione storica della diagnosi , vale a dire della dimensione di riattualizzazione di una storia eminentemente personale nel quadro clinico attuale; la concezione di un sintomo non come entità che giace nella sua insensatezza, separata dalla persona e dalla sua storia, ma come fenomeno che esprime con la “migliore soluzione possibile” la sofferenza della persona, che è dotato di senso e che rappresenta una forma di comunicazione; la necessità di non appiattire la diagnosi ad una forma univoca di osservazione dall’esterno, ma riconoscere un valore relazionale, vale a dire di inserire il processo diagnostico all’interno di un campo intersoggettivo in cui il sintomo acquisisce un ulteriore significato comunicativo. (Alessia Fusilli, effetto borderline)

Autore: Lionello Petruccioli

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